Atmosfere d’Irlanda: diario di viaggio #2

“Mentre giaccio qui ora dopo ora, mi sembra di entrare nell’antico tempo selvaggio della scogliera e di diventare un compagno di cormorani e corvi.”

The Aran Islands, John Millington Synge

Scoprii le Isole Aran circa cinque anni fa, cercando un’ambientazione adatta a quello che poi sarebbe diventato “Pelle di Foca”. Mi innamorai all’istante di Inish Mór, la più grande delle tre isolette al largo di Galway, e decisi di ispirarmi a essa per gli sfondi del mio romanzo. Inutile dirvi, quindi, che mettervi piede per la prima volta ha avuto un forte impatto emotivo per la sottoscritta.

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Le tempistiche di visita sono state molto ristrette, purtroppo, dettate dagli orari dei traghetti. Noi abbiamo scelto di partire da Rossaveal, più vicino a Galway rispetto al porto di Doolin.

La traversata è stata breve, ma un po’ travagliata per me, per via del mare un po’ agitato. Toccare terra è stato piacevole il doppio, dunque, e siamo stati accolti dal villaggio di Kilronan, tra noleggi di biciclette, carrozze trainate da cavalli, bar e negozi che vendevano la celebre lana delle Aran e i suoi maglioni conosciuti in tutto il mondo.

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Per evitare di non avere tempo al ritorno dalla nostra gita, mi sono subito fiondata all’Aran Sweaters Market per adottare il mio personale maglione. E’ stato un dispiacere scoprire che non avevano quello originale coi punti del clan McNamara, al quale tenevo molto, ma sono riuscita a trovarne comunque uno che mi piacesse, tutto mio, proprio come è accaduto alla Brennalyn della mia storia.

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Dopo la sosta obbligata al negozio, abbiamo optato come molti al noleggio di una bici (e meno male!), così, col vento in faccia e un sole pallido ma dal calore avvolgente, siamo partiti alla scoperta di quell’isola tanto agognata.

I campi delimitati dai muretti a secco sono i veri protagonisti del luogo, particolari nel loro essere scomposti. Il verde fa contrasto con l’azzurro del cielo e ovunque fanno capolino mucche, cavalli, asini, gabbiani e… corvi (loro non mancano mai). I prati sono punteggiati di bianco, rosa e giallo, colorati da fiorellini delicati che si lasciano ammirare in questa stagione. Ovunque rovi, edera e ortiche a decorare i bordi della stradina sterrata che percorre l’intera isola, pregna di un odore acre, mai sentito prima.

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La bici accorcia notevolmente le distanze e, sebbene non fosse il mio modo preferito di assaporare l’isola perché troppo veloce, è stato necessario per poter godere appieno di alcune soste in vista del traghetto di ritorno.

La nostra prima meta era il Seal Colony Viewpoint, luogo frequentato da una colonia di foche in cui, pertanto, sono facilmente osservabili. Vederle per la prima volta è stata un’emozione forte, che non dimenticherò. Ho trascorso attimi di solitudine con la reflex in mano, aiutandomi con lo zoom dell’obiettivo per vederle meglio a distanza.

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Sono esseri meravigliosi, degne di tutte le leggende di cui sono protagoniste indiscusse.

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La spiaggia della loro colonia ha rapito la mia attenzione: un tappeto di alghe coi loro frutti, mucillagini e patelle ricopre gli scogli, prodotti di una marea che cambia costantemente anche a distanza di poche ore.

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A malincuore ci siamo rimessi in marcia alla volta della nostra seconda e ultima tappa: il Dun Aonghasa, un forte risalente all’Età del Bronzo con le sue scogliere a picco sull’oceano.

Dal centro visitatori si raggiunge in pochi minuti a piedi, su una stradina in salita non troppo impegnativa, fatta di ciottoli. Mano a mano che si sale si iniziano a intravedere le scogliere, si fa prepotente la natura selvaggia dell’isola, una tavola in mezzo al blu del mare.

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Una cosa che ricorderò sempre è il tuono provocato dall’impatto delle onde sulla nuda roccia delle scogliere: il boato di un titano che fa sentire inermi davanti allo spettacolo di una natura forte e dominante, là dove l’uomo resta esposto alla sua furia. E’ pari a un pungo allo stomaco, udito per la prima volta.

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Del Dun Aonghasa è rimasto solo il perimetro circolare in pietra su un suolo calcareo coperto da radi ciuffi d’erba, lo stesso che si ritrova nel Burren e di cui vi parlerò nel prossimo diario di viaggio.

E poi, a un certo punto, il terreno lascia bruscamente il posto all’Oceano Atlantico, con un salto di un centinaio di metri, là dove solo i gabbiani, i cormorani e gli uccelli marini osano avventurarsi.

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Io ho affacciato lo sguardo da quelle scogliere, accovacciata come Brennalyn per non lasciarmi fregare dal tremore agli arti inferiori dovuto all’emozione e alla stanchezza accumulata dalla pedalata.

Immaginate il blu più profondo di cui siate capaci e spuma color latte, poi moltiplicatelo per chilometri e chilometri, infinito. Questo è l’Oceano Atlantico, una distesa selvaggia e indomita dalle mille sfumature di blu, una bellezza da rimirare almeno una volta nella vita.

Lì, su quella roccia a picco sul mare che tanto ho immaginato negli anni di stesura di “Pelle di Foca”, ho portato anche il mio romanzo ormai concluso, dovevo farlo, e irrimediabilmente mi sono venute alla mente le parole pronunciate tante volte da Brennalyn nel corso della storia, un motto che ormai è entrato a far parte anche di me: “E’ qui che voglio stare”.

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Dopo la sosta, siamo tornati indietro a passo piuttosto sostenuto, arrivando giusto in tempo per il traghetto del ritorno, con la promessa di tornare con più calma, magari dormendo sull’isola anziché a Galway.

A proposito di quest’ultima, considerata la capitale della musica d’Irlanda, posso dire di esserne rimasta affascinata. I negozietti della via principale sono coloratissimi, come accade in ogni parte dell’Isola di Smeraldo. A ogni angolo gruppi di giovani (e non) fanno capannello davanti agli artisti di strada che improvvisano canzoni e brani popolari, arricchendo l’atmosfera già frizzante della cittadina.

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Persino i tombini hanno una loro caratteristica in Irlanda e non è difficile imbattersi in murales dai colori sgargianti. Abbiamo avuto poco tempo per goderci le città, ma quella manciata di ore serali ci sono bastate ad apprezzarne le atmosfere.

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Ci leggiamo col prossimo diario di viaggio, in cui vi racconterò del Burren e delle maestose Cliffs of Moher.

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