Su, sempre più su

Da qualche mese a questa parte ho ufficialmente fatto del trekking il mio sport preferito.

Vi assicuro che non sono mai stata una persona sportiva, al contrario: sono di indole pelandrona, nessuno è mai riuscito a farmi fare attività fisica continuativa. Eppure è scoccata la scintilla.

Camminare in montagna mi è sempre piaciuto, tuttavia, ogni volta che mi si presentava l’occasione, fatti i primi duecento metri di salita cominciavo  ad avere il fiato corto, le gambe spezzate a metà e… un fastidioso dolore all’inguine che, a lungo andare, mi impediva di procedere in salita. Era un dolore invalidante, ve lo assicuro. E così, con il tempo, ho iniziato a rassegnarmi; non sarei mai arrivata in cima a un colle, figurarsi poi a un monte! Non avrei potuto percorrere nessun sentiero che non fosse pianeggiante, né camminare per ore in mezzo alla mia amata Natura.

caminarePoi, un giorno che benedirò per sempre, sono andata a fare una camminata con Meg, mia carissima amica nonché blogger (la trovate su Prosit!). Vedendomi camminare, si è accorta subito di diversi madornali errori che commettevo sia in salita che in discesa, e ha ipotizzato che fosse quello il motivo per cui provavo tanto dolore.

Mi ha mostrato un modo nuovo di affrontare la salita, un modo leggero, per nulla semplice, ma giusto, di percorrere le strade delle nostre montagne.

Da quel momento in poi (e non la ringrazierò mai abbastanza per il grande dono che mi ha fatto) sono diventata agile quasi quanto una capretta e, dal non riuscire a fare cento metri di dislivello, sono arrivata in sole due settimane a farne settecento. Non sarà un numero sensazionale per chi pratica il trekking, ma lo è per me, che per anni mi sono preclusa la bellezza di scorci sconosciuti, credendo di non potervi mai accedere.

E questo mi ha insegnato che basta cambiare prospettiva per vedere il mondo in modo del tutto diverso.

La salita non è più motivo di agonia, bensì di sfida: cosa ci sarà più in alto, dietro quella curva? Che sorprese mi riserverà la vista di cui godrò una volta arrivata più su? E così continuo a salire, salire e ancora salire, agile e leggera, perché le mie zavorre le ho lasciate andare, rotolare giù a valle e fino al fiume, che tutto pulisce con la sua acqua.

Arrivo in cima e mi sento appagata, contenta, orgogliosa di me stessa per aver superato mille limiti della mia mente. E finalmente respiro a pieni polmoni, mi godo la vista, e mi ringrazio. Sì, avete capito bene. Dico grazie alle mie gambe per aver sostenuto il peso del mio corpo, ai miei occhi per permettermi di godere di tutto il panorama, e ringrazio il mio cuore per essersi alleggerito e per farmi provare così tanta gioia.

Ho cambiato semplicemente prospettiva, non mi sono trasferita in un corpo nuovo, badate! Eppure è come se lo avessi fatto, perché il mio involucro, quello che ricopre la mia anima, è davvero nuovo, rinnovato, rinfrancato dall’attività fisica che tanto gli è mancata negli anni passati.

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Eppure camminare in montagna, in salita, non mi ha dato solo questo. Si sale concentrandosi su ogni movimento, perché per una che ha camminato per tanti anni nel modo sbagliato il cambiamento non avviene dall’oggi al domani. Bisogna rieducare il cervello, chiedergli di fare movimenti diversi, di assecondare un ordine che non ha mai ricevuto. Ci si concentra, e ogni passo è una lotta interna tra ciò che il cervello vorrebbe fare in automatico e ciò che io, invece, desidero che faccia. All’inizio è stata dura, ma adesso, non appena salgo anche solo i gradini di casa, il mio corpo risponde nel modo giusto. Passo dopo passo, si impara il valore della concentrazione, del porre attenzione al momento presente, per non perdere l’equilibrio, per non commettere il fatidico errore. E si va su, sempre più su, senza accorgersi di quanti metri si siano percorsi e di quanti ce ne siano ancora davanti, perché in quel momento non ha importanza. Importa solo la coordinazione mente-corpo.

Quando ci si ferma, col sudore appiccicato a ogni millimetro di pelle e il cuore galoppante, ci si guarda indietro e ci si sorprende della pendenza della salita appena fatta, ci si meraviglia di se stessi. In fondo mio papà me lo ha sempre detto: “Muna, le montagne sembrano altissime e insormontabili, se viste dal basso, ma non è così difficile arrivare in cima. E, una volta lì, potrai godere della vista!”

E ormai me lo ripeto come un mantra, perché mio padre ci ha sempre visto lungo, con me, che sono sempre stata arrendevole nei confronti delle montagne, sia quelle fisiche che figurate…

Quando si cammina, dicevo, ci si concentra. E questa concentrazione, unita al paesaggio che ci circonda, scaturisce in noi pensieri profondi, riflessioni importanti che nel caos cittadino difficilmente faremmo. Per questo mi piace camminare in montagna. Ogni passo è un insegnamento e si comprende con facilità perché l’uomo di un tempo fosse tanto saggio, in un contesto più naturale.

Chi sono io? Quali sono i miei limiti? Fin dove posso spingermi? 

Oggi, mentre passeggiavo, mi interrogavo su quello che ho imparato negli ultimi mesi e su quello che, invece, dovrei ancora imparare.

La Natura mi insegna a essere paziente, perché solo mettendo un passo dietro l’altro, lento ma costante, posso raggiungere la vetta. E questo vale in ogni ambito, non solo nel trekking. Non serve arrabbiarsi se non si riesce in qualcosa, non serve abbattersi se non si può fare tutto nel modo in cui vorremmo. E’ solo osservando la pazienza che i risultati arriveranno. E, nel frattempo, non è salutare rivolgersi alcun rimprovero, ma solo amarsi e accettarsi per quello che si è, con la certezza di poter fare sempre meglio e di poter andare su, sempre più su.

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Muna

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