Da Mai Mona a Santa Lucia: culti dell’acqua nella Liguria di Ponente

Son cresciuta tra due fiumi, modellata dalle loro energie e da una terra lambita dal mare. Nell’utero materno prima e sulla terra poi, ho ricevuto un abbraccio d’acqua che mi porto dietro dalla mia vita intrauterina e che non mi abbandona mai, sta scritto in ogni mia cellula.

Sono cresciuta dove i monti sono piccoli giganti da guardare con meraviglia e che ti coprono le spalle e ti proteggono dal vento e da climi troppo rigidi. Sono presenze imponenti, che ti fanno sentire cullata tra braccia invincibili, ma mai troppo strette, lasciandoti libera di andare lontano, se vuoi.

Per questi motivi credo di riuscire a comprendere cosa dovessero provare i popoli che calcarono la Liguria davanti a certe manifestazioni del divino nella materia, come accade in una delle valli che solcano questa terra, a ponente.

Qui dormono ancora due déi in attesa di essere ridestati dal sonno, due cime sacre dedicate a Belenos il Brillante e a Mai Mona, la Grande Madre. Sotto di loro scorre un torrente cristallino e vivace, che fa balzi acrobatici tra le rocce e crea polle d’acqua che pure la più bella delle figlie di Teti e di Oceano vorrebbe accaparrarsi. Uno di questi laghi è dedicato ancora una volta a Mai Mona, grande Dea a cui le donne Liguri si rivolgevano in questi luoghi selvaggi per guarire, per chiedere benessere e fertilità.

Mai Mona, la Grande Madre

In un angolo della Liguria di Ponente si conserva ancora oggi, grazie alla preziosa memoria degli anziani, un culto antico e dalle forti connotazioni matriarcali. Mai Mona compare come toponimo connesso alle vette e alle acque e ci sono testimonianze di riti che la riguardano e che sono sopravvissuti sorprendentemente intatti fino a pochi decenni fa.

E’ il caso, per esempio, di una lastra d’ardesia su cui era raffigurata Mai Mona. Accanto a lei, c’era una piccola vasca di pietra simile a un mortaio, un’acquasantiera naturale atta a raccogliere le acque piovane. L’immagine sacra era posta nei pressi della cima dedicata alla Dea e, nel percorrere quel sentiero, il viandante lasciava offerte in suo onore, che consistevano in vivande simboliche dell’abbondanza della terra – come farinacei o frutti freschi – o della fertilità – come la frutta secca. Se nel mortaio era presente dell’acqua, il viaggiatore ne portava via un po’, raccogliendola in un contenitore che aveva portato con sé per l’occasione. Quel liquido sacro proveniente dal cielo, puro, incontaminato, sarebbe risultato utile in caso di malattia, poiché Mai Mona veniva invocata per ricevere guarigione e scongiurare la sterilità.

Gesti e credenze, questi, che rimandano alla concezione antica del dare e del ricevere, che noi esseri umani moderni abbiamo smesso di praticare, con grande danno di noi stessi e del prossimo. L’antica Dea dei primordi, infatti, insegnava che la Natura di cui ella stessa faceva parte poteva al contempo elargire e trarre a sé la vita, così come ogni elemento naturale dà e prende, in perfetta armonia con le leggi del cosmo. Noi esseri umani moderni, invece, siamo governati da due istinti malsani, il servilismo e l’egoismo, due demoni che ci portano o a prostrarci nel dare tutto ciò che abbiamo al prossimo – in termini di tempo e servizi – senza mai badare a noi stessi, oppure, al contrario, al non curarci del benessere altrui, indifferenti e privi di compassione. Non siamo più in grado di considerarci parti del Tutto, come invece facevano i nostri antenati con estrema saggezza. Oggi pretendiamo senza offrire nulla; vogliamo raggiungere la conoscenza senza sacrificio; non conosciamo il vero e profondo valore dell’offerta di sé. Allo stesso modo, elargiamo aiuti e consigli non richiesti; ci affanniamo per piacere agli altri, quando l’unica approvazione che stiamo inconsciamente cercando è quella di noi stessi; ci laceriamo pur di accontentare richieste di datori di lavoro/partner/figli, senza considerare la cosa più importante che abbiamo, e cioè noi stessi.

Sono concetti estranei a quelle popolazioni che vissero qui come altrove e che erano invece perfettamente allineate con le energie cicliche del cosmo. Se si desiderava chiedere la guarigione, si doveva lasciare qualcosa in cambio, a mo’ di sacrificio.

Dare e prendere. Offrire e ricevere. Non esistevano l’uno senza l’altro, non potevano essere scissi, così come non si poteva distinguere la vita dalla morte, poiché queste due polarità erano considerate appartenenti al medesimo ciclo dell’esistenza. Allo stesso modo, Mai Mona, la Grande Madre dei primordi, era Dea connessa a quelle acque che erano sinonimo di guarigione, di nascita, di vitalità… ma rappresentavano anche il liquido amniotico, le acque del grembo materno al quale ogni essere umano sarebbe tornato alla fine dei suoi giorni terreni, nonché l’inconoscibile.

La potente e preziosa raffigurazione di Mai Mona è andata perduta con il secondo conflitto mondiale, ma ne resta il ricordo fra i più anziani, così come si conservano tracce del suo culto in diversi luoghi del Ponente Ligure. Oltre a laghi, sorgenti e cime a lei dedicate, sono state trovate vasche artificiali di notevoli dimensioni scavate nella roccia e atte a raccogliere l’acqua piovana, soprattutto in luoghi d’altura ove i pastori erano soliti trascorrere i mesi estivi con il bestiame, lontano dai laghi a fondovalle. Sintomo, questo, della magnificenza che ispirava questa dea primordiale e arcaica che in epoca cristiana finì per essere identificata con la Vergine Maria, se, pur di venerarla, l’uomo di un tempo si spingeva a compiere opere grandiose in luoghi scoscesi dove l’acqua poteva essere raccolta solo dal cielo.

E proprio in questi luoghi intitolati a Mai Mona, il cristianesimo eresse cappelle dedicate alla Madonna e a Santa Lucia.

Da Mai Mona a Santa Lucia

A questo punto, sorge spontanea una riflessione. Sappiamo che sui picchi che incorniciano i luoghi di Mai Mona – come il Monte Abellio o Colle Belenda, per esempio – dorme il dio Belenos, il brillante e luminoso, colui che è connesso al fuoco della forgia e dell’illuminazione. Ma quel Belenos, più tardo rispetto a Mai Mona, potrebbe in verità essere la trasposizione patriarcale di un’altra divinità: Belisama, considerata sua consorte e dea anch’ella preposta al fuoco e all’artigianato, ma pure alle acque. Dunque, da Mai Mona, si potrebbe essere passati alla divina e gallica Belisama, poi al luminoso Belenos.

Col sopraggiungere della cristianità, visto il fervore con cui le pratiche pagane e arcaiche venivano ancora praticate dal popolo, la Chiesa dovette arrendersi alla potenza dei culti femminili, accontentando coloro che non volevano abbandonarli. Le antiche dee e i riti a esse connesse, dunque, furono inglobate da figure femminili cristiane, come Santa Lucia.

E non è certo un caso che sia stata scelta proprio lei a fare da guardiana a un luogo così potente energeticamente, una santa connessa alla luce e al fuoco, le stesse di Belisama, e al ciclo di vita-morte-rigenerazione della più arcaica Mai Mona.

Santa Lucia, infatti, racchiude in sé le polarità luce-buio, vita-morte, principio-conclusione che fanno parte di tutte le dee più arcaiche, compresa Mai Mona. Lucia, diretta discendente di divinità come la Perchta e di spiriti come Lussi, è collocata nel calendario cristiano in quella che per gli antichi era la notte più buia e oscura dell’anno, il 13 dicembre, e lei giungeva con la sua corona di candele posta sul capo a illuminare le tenebre e a portare doni ai più piccoli. Ma nella sua versione più arcaica e pagana, Lussi (Santa Lucia) era uno spirito femminile connesso al mondo ctonio e che esigeva rispetto; non elargiva i suoi doni a chi non li meritava, spalancando l’oscurità per chi non osservava riposo e silenzio durante le notti che si avvicinavano al solstizio invernale. Ella presiedeva le nascite e decideva quando dovesse sopraggiungere la morte. Ecco, dunque, tornare la Dea primordiale nel suo carattere sia vitale che mortifero, sia luminoso che oscuro.

Lussi/Santa Lucia è connessa con le attività della tessitura e della filatura (artigianato a cui è preposta anche Belisama), il che la rende una figura divina legata al fato, esattamente come le Norne, le Moire e le Parche, dirette eredi della Grande Madre primordiale. La rete disegnata dal filo nella trama e nell’ordito richiama il simbolo acquatico della rete da pesca, inciso in epoca matriarcale su diversi supporti e che la Gimbutas ipotizzò essere un attributo della Dea dell’Antica Europa, la Mai Mona venerata dai liguri, in particolar modo nel suo essere legata alle acque.

Esiste, dunque, un’evidente connessione tra queste tre figure divine – Mai Mona, Belisama e Santa Lucia – un collegamento che pare tracciare i disegni di un arazzo prezioso e antico, giunto sbiadito fino ai giorni nostri, ma ancora vivo nella cultura nostrana.

Non credo al caso, tuttavia non ho certezze. Ho dalla mia “solo” il sentire che i luoghi lasciano sottopelle, un fiuto che, a prescindere dai nomi che diamo alle cose, mi dice quanto ritrovare il sacro in ogni sua forma sia un atto di grande Bellezza e Coraggio.

Mel

© Melania D’Alessandro per http://www.spondediboscomadre.com

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